Italian Theory? Sul tasso di dipendenza francofila
- Giovanni Battista Demarta
- Sep 5, 2022
- 5 min read
Sebbene risalga ormai ad alcuni anni fa, la tavola rotonda sull’Italian Theory che ha visto confrontarsi Roberto Esposito, Dario Gentili e Giacomo Marramao, e che recentemente è stato tradotto anche in tedesco[1], sfiora alcuni elementi decisivi di fondo intorno alla pretesa attuale di originalità e protagonismo internazionale della filosofia italiana che non mi pare siano stati colti e ripresi a sufficienza nell’ulteriore dibattito sulla questione.
Alludo anzitutto – e soprattutto – al rilievo iniziale di Marramao (cfr. pp. 12-13), che nella direzione di un censimento ideale delle tendenze della filosofia italiana contemporanea traccia una linea di demarcazione tra un’area squisitamente francesistica, per così dire, e una spiccatamente germanistica, non priva di una riserva critica nei confronti della prima (sull’esempio della severità trontiana nei confronti di una figura filosofica come Foucault). Il nucleo non esplicitato della proposta, e quindi di un possibile rimprovero di “dipendenza francofila” da estendere alle posizioni di un Negri o di un Esposito, ma direi anche al “germanista” Agamben sotto alcuni aspetti non secondari, consiste nell’appurare che questa bipartizione o demarcazione fondamentale trascende l’arbitrio individuale inerente alla scelta dei propri eroi filosofici, a prescindere dalla considerazione generale per cui una simile proposta scarica il peso di una permanente epigonalità nello scenario contemporaneo tutto sul lato italiano del triangolo filosofico classico, nel momento in cui si è chiamati a una valutazione teoretica in tempo reale proprio di tale pretesa italiana di originalità che sarebbe già stata avallata da un’inedita attenzione traduttiva e recettiva nell’attuale circuito anglofono globale.
L’apertura esplicita di questa disputa più o meno latente tra “francesisti” e “germanisti” nell’ambito filosofico italiano trova infatti senso se si approfondisce quanto la ripresa nostrana di temi del poststrutturalismo di matrice foucaultiana, e più in generale di una serie di assunti di fondo mutuati non troppo criticamente dalla French Theory con la sua trionfale tournée statunitense, comporti proprio la reiterazione di una lettura e di un congedo alquanto discutibili in rapporto alla filosofia tedesca contemporanea, mentre il filone germanistico reclama implicitamente un’accesso di prima mano in alternativa a soluzioni stereotipate e semplicistiche che consentono all’Italian Theory di eleggere troppo frettolosamente la Parigi degli anni ’60 a capitale filosofica della seconda metà del XX secolo. La classificazione di tutto il mondo filosofico tedesco tra le guerre mondiali, da parte di Esposito nei suoi scritti più tematici sulla teorizzazione di una differenza italiana in filosofia, all’insegna della categoria onnicomprensiva di un’accantonata “filosofia della crisi”, con l’oscurità della classica notte provvidenziale in cui tutti i bovini appaiono inesorabilmente neri, ne è una traccia eloquente che andrebbe sviluppata oltre i limiti di queste poche righe di accenno alla questione inesplorata.
Dopo aver condivisibilmente osservato che, come anticipato, lo stesso Agamben esteriormente germanista vada piuttosto considerato come un «saggista francese» che di certo parla in nome di diversi autori tedeschi, ma lo fa «in modo molto legato alla tradizione francese» (p. 14), Marramao coglie anche il vero punto dirimente che dovrebbe suggerire molta più prudenza nell’adottare schemi preconfezionati d’oltralpe nel rivendicare un’originalità rispetto alla filosofia tedesca, oggi certamente attaccabile in quanto in preda a una vera e propria crisi d’identità: è proprio di un certo sedicente pseudoradicalismo, ostentato da molte genealogie fotocopiate di provenienza francese, il considerare, con molta supponenza se non ignoranza, già “distrutta” l’eredità heideggeriana, frettolosamente riconsegnata a quell’umanismo metafisico da lui stesso denunciato con il Brief che ha inaugurato la sua cosiddetta “fortuna” in terra francese; mentre la questione “custodita” da una (sparuta) minoranza germanistico-filosofica risiede proprio nel fatto, al netto di una discussione sterile e infinita che giustifica solo l’apparato filosofico-accademico globalizzato dei produttori in serie di letteratura secondaria, che «la resa di conti filosofica con Heidegger sia rimasta in sospeso» (p. 15). Se il mondo filosofico di Francia ha generosamente offerto asilo ai proscritti tedeschi – principalmente Nietzsche e Heidegger – per motivi d’inaffidabilità politica, appartiene ai miti autoctoni parigini che in questo passaggio di frontiere si sia custodita la radicalità di un’eccedenza sperimentata rispetto alla tradizione filosofica che nella Germania del secondo dopoguerra – ovvero proprio da parte del “popolo di poeti e pensatori” – è stata dispersa sistematicamente in nome di una precisa normalizzazione “urbanizzatrice”, atta più che altro a livellare secondo la (bassa) soglia di tolleranza di molti professionisti della filosofia, e a inaugurare un’Alleanza Atlantica conservatrice che poi ha veicolato i riflussi di filosofia analitica in Europa.
Altra questione è se questa componente germanistica della filosofia italiana abbia saputo effettivamente custodire quell’eccedenza dispersa (anzitutto) in terra tedesca. In uno degli ultimi dialoghi con lo scrivente, Gianni Vattimo ha riassunto la situazione transalpina – e il suicidio della filosofia tedesca contemporanea – in termini drastici ma convinti: «La filosofia tedesca ormai siamo solo noi!» Ma proprio nella genesi del Pensiero Debole, che poi ha inglobato a proprie spese la parola d’ordine del postmoderno, ha un peso determinante la discutibile mediazione francese sul ticket filosofico “Nietzsche-Heidegger”, spesso incline a mutarsi nell’altrettanto discutibile opzione di un “Nietzsche oltre Heidegger”. Affermare, come fa Esposito durante il confronto, un parallelismo omologante tra figure come Heidegger, Husserl e Valéry nel nome del comune intento di «ri-territorializzarsi sulla radice greca» (p. 14), incarna della tradizione filosofica francese un peculiare goût du mélange che è sconfinato spesso in arditi esperimenti di pasticceria filosofica, a partire dai mastri pasticceri Kojève e Sartre in nome delle “tre H”, reiterando nel caso di Heidegger il luogo comune di un altro inizio del pensiero occidentale coincidente con un ritorno retrospettivo ai Greci. Ma lo smercio di luoghi comuni filosofici è attività corrente e imperturbata presso molti proseliti ed epigoni della French Theory, che nel suo passaggio a nord-ovest in terra statunitense ha ancor più ridicolizzato la possibilità di un approccio serio alla filosofia tedesca contemporanea rispetto alla variegata eredità idealistica.
Sullo sfondo della tavola rotonda resta appunto, anche in questo caso appena sollevato, il tema della «crisi della filosofia» (pp. 22-23), esplicitata nei termini di un irrigidimento epigonale proprio di un tempo ormai quasi irreversibilmente incapace di produrre classici, e tantomeno elaborazioni di un qualche rilievo, rispetto a un “frammentismo” che da un lato designa lo stentato sopravvivere della filosofia accademica alla sua fine – o al suo compimento – nella forma di affettata erudizione, e dall’altro la meccanizzazione della scrittura a favore di una papers philosophy che insegue in modo provincialistico una facile visibilità nei dibattiti del circuito anglofono. Certamente ha ragione Dario Gentili (cfr. p. 23) nel sottolineare che una delle peculiarità della filosofia italiana impegnata sul tema della biopolitica sia quella del recupero di una costruzione di libri di maggior respiro rispetto alla letteratura accademico-industriale di facile compilazione e consumo. Ciò può rappresentare un primo e importante vessilo nel concepire «una sorta di contro-mobilitazione» (p. 12) rispetto alle ondate ormai estenuanti – ed estenuate – della filosofia analitica convogliata nella philosophy of mind, con tutta la pretesa mal riposta di inauguralità storica di fronte alla tradizione filosofica. Per gli altri aspetti qui accennati, e soprattutto per il nodo di una cattiva mediazione sulla filosofia tedesca, risulta però difficile pensare che ciò basti per contromobilitare una pratica della filosofia più originaria rispetto al professionismo livellato nel circuito anglocentrico della “filosofia mondiale”, rispetto al quale le ultime generazioni di filosofi tedeschi si sono autocondannati al ruolo di nuova provincia, magari girando a vuoto in termini di Philosophie des Geistes intorno alla presunta inesauribilità dell’eredità dell’Idealismo Tedesco. Già Hans-Georg Gadamer, che per Heidegger avrebbe dovuto rappresentare un qualche argine all’arrivo previsto dell’ondata analitica, ha sostanzialmente fallito nel compito di portare fino in fondo l’antinomia di verità e metodo, sollevata proprio in nome del suo maestro del tempo marburghese. Figuriamoci gli eredi incauti di un bignami pasticciato della filosofia tedesca che si autoriducono al ruolo di portatori insani di luoghi comuni filosofici.
[1] «Che cos’è Italian Theory? Tavola rotonda con Roberto Esposito, Dario Gentili, Giacomo Marramao», a cura di Federica Buongiorno, Antonio Lucci, in Lo Sguardo, n. 15, 2014 (II), pp. 11-23; per la traduzione tedesca, alludo a «Was ist Italian Theory? Ein Gespräch mit Roberto Esposito, Dario Gentili und Giacomo Marramao», aus dem Italienischen übersetzt von Daniel Creutz, in Antonio Lucci / Esther Schomacher / Jan Söffner (Hg.), Italian Theory, Merve Verlag, Leipzig 2020, S. 274-298.

Comments