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Elezioni politiche 2022 (1): il Grande Centro italiano e la mediocrazia della rimozione pubblica

  • Writer: Giovanni Battista Demarta
    Giovanni Battista Demarta
  • Aug 31, 2022
  • 4 min read

Sul carattere ostentatamente scialbo, per non dire squallido, della campagna elettorale improvvisata dopo la crisi di governo di mezza estate si registra una marcata convergenza degli osservatori di politica. Eppure la consapevolezza pubblica sulla gravità di una crisi epocale della politica, che viene rimproverata trasversalmente ai suoi modesti se non ignavi protagonisti nostrani, non supera lo smercio di limitanti luoghi comuni in sede di cronaca giornalistica. Da un lato s’invoca una riconquista di centralità per la politica, dall’altro il vuoto spinto e accumulato di progettualità pensante, che ha una lunga genesi, viene colmato immediatamente e compulsivamente dallo scambio di artificiose quanto calcolate accuse ideologiche di estremismo tra destra e sinistra, specie nel tentativo di polarizzazione della campagna intrapreso da Pd e FdI, che solo malamente può ormai celare la consolidata armonia prestabilita in nome di una condivisa rimozione di essenziali temi politici dallo spazio pubblico della contesa politica.


Poco ma sicuro: a prescindere dagli schieramenti politici individuali, si tratta di un’indegna gazzarra di fronte a un Paese che sta appena uscendo – puntualmente e ulteriormente indebitato – dagli scossoni di una discutibile gestione economica della crisi pandemica, e che ora si ritrova senza poter riprendere il respiro a fronteggiare l’emergenza inflattiva ed energetica dovuta allo scenario bellico tristemente noto. Certamente sarebbe stato troppo chiedere una visione anticipatrice e alternativa per tamponare la dipendenza energetica dalla Russia al vasto Club trasversale degli amici di Putin, da Berlusconi e Salvini per arrivare al marxista-narcisista da salotto televisivo, fermo restando che magari ci sono altri modi di evidenziare le palesi contraddizioni negate dall’Occidente “avanzato”, con le sue autonarrazioni fantasiose sul “mondo libero” che da ultimo Mario Draghi – all’insegna di una dichiarata “passione per l’umano” della cornice conviviale – ha rinverdito nel suo recente discorso al Meeting di Rimini. Il problema è che l’Italia non è segnata soltanto, al pari di altre nazioni, dalle più recenti emergenze di respiro globale, ma da un più marcato depredamento socioeconomico lungo decenni sotto il dominio di ciò che sempre impropriamente si denomina liberismo o neoliberismo, dopo essere stata nella Prima Repubblica l’epicentro della Guerra Fredda quale protettorato angloamericano con un Sottostato non esattamente limpido e innocente. Un depredamento reso possibile non soltanto dalla peculiare capacità sociale italiana di flirtare con l’ingiustizia, storicamente comprovata, ma dall’altrettanto peculiare indecenza di una classe politica sistematicamente coltivata per insignificanza etico-progettuale nell’agone integralmente occupato dalla crisi dei partiti politici e dalla loro esibita incapacità di fare elaborazione, nani che addestrano inesorabilmente figure ancora più piccole.


La possibile replica: perché questa indignazione, se ormai è noto che la politica non conta più nulla e le vere decisioni sono già prese altrove? E forse le classi politiche degli altri Paesi europei brillano per genialità rifondativa della vita comune, in un’Europa idealmente stanca e propensa all’idiotismo conservatore di una civiltà in via di dissoluzione? La possibile risposta, magari nella versione non scontata: troppo comodo sostenere che sia divenuto impossibile salvaguardare i destini collettivi dagli imperativi senza autore dei mercati internazionali, e al di fuori del saccente e menzognero aut-aut draghiano tra atlantismo supino e illusioni autarchiche. Ed è proprio qui che va smascherata l’armonia prestabilita tra fronti politici verbalmente contrapposti, quella convergenza verso il Centro indistinto di una sedicente “moderazione” che in realtà rivela la violenza della rimozione di una situazione sociale esplosiva. Facciamo esempi concreti: da quanti decenni in Italia non si progetta una politica della casa, anche a fronte della nuova povertà di invisibili cacciati dal mondo lavorativo nell’arco di una notte? È forse un decreto divino che essa debba essere lasciata ai criteri di garanzia delle banche erogatrici di mutui o a un mercato immobiliare per eredi? Quasi inutile poi citare la questione del lavoro (povero), i livelli salariali, la sistematica precarizzazione di intere generazioni ignorate per le quali il futuro è una minaccia piuttosto che un orizzonte di compimento.


Per venire, solo con primi cenni di approfondimento delle origini di una desertificazione della politica, alla crisi della democrazia rappresentativa. La democrazia non è principalmente l'elezione di rappresentanti, oggi spesso più mediocri dei rappresentati se non fosse che per esperienza di sofferenza sociale. La democrazia è accesso alle questioni fondamentali che possono garantire il progetto di una vita al riparo dai meccanismi ormai anonimi e incontrollabili dell’essere sociale. L’unico residuo di astuzia della ragione che è emerso dalla cosiddetta fine della storia è quello della ragione che continua a strumentalizzare l’essere umano, ridotto a funzione di prestazione tecnica. Se non si riparte da qui, diventa impossibile ripensare, attualizzando e non demolendo la Costituzione italiana, le condizioni per una democrazia che non ha ancora visto la luce nella storia e che oggi appare altamente utopica agli occhi dell’ultimo uomo della benevola rassegnazione, che ha svenduto autonomia e libertà. È così inesorabile che la politica consegni la vita alla sua finanziarizzazione totale, entro la crisi ormai irreparabile della “civiltà del denaro”, per citare un sottotitolo di Luciano Gallino? NO. Ma qui la lampada accecante di un processo alla politica va puntata anzitutto a sinistra. E a molti luoghi comuni che vediamo riaffiorare anche in questi giorni e che non consentono di affrontare la democrazia di facciata del mondo liberale. con le sue forme soft di dominio totalitario e oggettivazione dell’umano. Tanto per anticipare un esempio tra questi luoghi comuni intoccabili, l’incapacità di sancire i limiti di uno Stato puramente esattoriale, che ha fallito completamente la questione della ridistribuzione e dell’uguaglianza. Anche perché non fa che condividere con l’ideologia capitalistica il mito della “scarsità” del denaro, che viene naturalizzato quale bene economico. Qui ci sarebbe da ricostruire la storia indegna e intergenerazionale di quei politici tuttora classificati come “progressisti”, che in realtà hanno consegnato il potere di creazione ed erogazione del denaro ai privati, e che meriterebbero come minimo un processo pubblico e l’espulsione definitiva per indegnità dalla vita politica, se certo il Partito Democratico non si rivelasse puntualmente il novello Partito Democristiano.

 

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