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Da Heidegger a Hegel? Nota a un’autopresentazione torinese di Cacciari

  • Writer: Giovanni Battista Demarta
    Giovanni Battista Demarta
  • Sep 5, 2022
  • 5 min read

La forzata concisione delle sintesi retrospettive presentate dai filosofi italiani che si sono succeduti presso il seminario pluriennale sulla filosofia italiana contemporanea, organizzato a Torino dal Centro Studi Pareyson, ha il vantaggio di far emergere retroscena impensati dalla posizione di fondo brevemente delineata dai singoli intervenuti, talvolta molto di più che nel caso di volumi ben più ampi. Nel caso di Massimo Cacciari, che è l’oggetto di queste brevi considerazioni, va premesso a titolo di opinione personale, al di là di qualsiasi possibile o reale divergenza filosofica, che le occasioni dei suoi interventi torinesi, e nella fattispecie di quelli che in un modo o nell’altro ruotano intorno a Luigi Pareyson, hanno coinciso con i migliori tra gli interventi pubblici ai quali ho avuto modo di assistere. Lungo il filo conduttore della questione della libertà, è stato così tanto nel decennale della scomparsa di Pareyson (settembre 2001) quanto per il convegno nel centenario della nascita (novembre 2018, posticipato rispetto alla ricorrenza), e in una misura tale da non trovare riscontro negli scritti più voluminosi dell’autore.


Premesso questo, il titolo che correda la versione pubblicata della sua autopresentazione, «Da Heidegger a Hegel»[1], apparsa insieme alle altre nel 2013, evoca al di là delle intenzioni del diretto interessato un movimento fondamentale della filosofia contemporanea, tale da trascendere l’ambito italiano. In realtà il contributo di Cacciari prende avvio da Dilthey e dal debito decisivo che Heidegger avrebbe contratto con quest’ultimo, secondo la tipica visione per cui la genesi di Essere e tempo equivarrebbe storico-filosoficamente a una collazione di prestiti epigonali. Con tale approccio, memori della lezione per cui molte dichiarazioni di condivisione della “scoperta dell’esistenza” – per richiamare un titolo di Emmanuel Lévinas – sono equivalse a un suo subitaneo ricoprimento, a maggior ragione in terra francese, l’enfasi della menzione di una «natura ek-statica dell’esserci» (p. 91) è accompagnata da una “lettura” del celebre trattato incompiuto tutta calibrata sulla moneta corrente dei più persistenti luoghi comuni heideggerologi raccattati nel corso di una “recezione” mancata. Spicca anche nel corso di questo contributo l’esibizione caratteristica di formulette autoreferenziali che ambiscono a una consumata profondità, come nel caso del «dif-ferire dall’Essere» proprio dell’esserci, ma che tradiscono la scarsità di un diretto “impegno esistentivo” nel cogliere il “differimento emozionale” che connota ciò che formalmente è denominato come il riferimento dell’essere all’esserci, e che poco ha a che fare con il persistere volontaristico «nel proprio linguaggio, nel proprio lavoro, nelle proprie decisioni e lotte» (91), se almeno si volesse tentare dopo vari decenni di evitare la via di fuga antiquata di una distorsione decisionistica della Entschlossenheit, architrave dell’analitica esistenziale con ambizione ontologico-fondamentale che continua a rappresentare una pietra d’inciampo per molti professionisti della compilazione accademica.


Una volta imboccata questa via di una lettura mediata dalla precedente “storia degli effetti”, il resto viene quasi da sé. Ossia, una volta calata la cortina fumogena di tali formule, che sostituiscono la sperimentazione della modalità in cui «l’esserci manifesta la propria costitutiva ek-staticità» (92), dal debito nei confronti dello storicismo alla Dilthey si passa immediatamente alla riconduzione di Heidegger a una forma inconsapevole di hegelismo minore e meno limpido, fermo restando che in questa sede è impossibile riproporre la contesa del passaggio dal tempo “volgare” a quello autentico, e quindi sottoporre a contestazione l’affermazione per cui in fondo non ci si sarebbe allontanati radicalmente dalla concezione hegeliana del tempo storico. Ergo: meglio rimanere all’originale che fermarsi alla sbiadita imitazione, ed ecco spiegato il titolo “programmatico” che evoca il movimento da Heidegger a Hegel. Se non fosse che tale “movimento”, come accennato, non rappresenta altro, in termini militari, che la principale “manovra di ripiego” della filosofia “continentale” contemporanea, e quindi solo un movimento apparente che rivela un’impotente immobilità conservatrice, a fronte dell’impossibilità di ripercorrere il passaggio “da Hegel a Heidegger” che forse lo stesso Heidegger non ha saputo evidenziare sufficientemente nella sua produzione testuale successiva al “fallimento” di Essere e tempo. Ci si trova così ancora impelagati nella ricostruzione della transizione da “Heidegger I” a “Heidegger II” in termini di passaggio da uno storicismo diltheyano a uno hegeliano, ricostruzione che reca ormai la data del lontano 1953 e il nome di Karl Löwith. Risulta estremamente significativo che Jürgen Habermas, il promotore formale dell’altisonante programma “pensare con Heidegger contro Heidegger” che risale notoriamente a quello stesso anno, nella sua prolissa quasi-storia della filosofia del 2019 abbia l’ardire di ricorrere ancora a questo diversivo per evitare di ammettere l’inesistenza di un confronto autentico (finalmente) con l’amato-odiato avversario, una volta che non ci si rifugi nella comodità della scomunica per inaffidabilità politica. Che la filosofia contemporanea rimanga in tal modo all’ombra di Heidegger, costituisce non la professione di heideggerismo (purtroppo mi vedo costretto a ribadirlo ogni volta che tocco simili posizioni filosoficamente scorrette rispetto all’attuale mainstream), ma al contrario il tentativo di uscire da questo movimento reattivo di conservazione e di sottrarre al nome di Heidegger, con le sue vere ombre, il primato di un’avanguardia non ripercorsa.


Per questi motivi suscita stupore che Cacciari muova proprio da questo approccio a Heidegger per sintetizzare – o sostituire – una propria autopresentazione retrospettiva. Sotto questo profilo, rispetto al tardo Cacciari interprete di Heidegger risulta molto più attuale il giovane Vattimo, che – si badi, almeno a livello di dichiarazione di principio – aveva smascherato questa tentazione storicistica “apriori” di liquidazione del pensatore di Messkirch. Altra questione, affrontata altrove, è sondare se lo stesso Vattimo successivo, accogliendo lo hegelismo indebolito di una certa urbanizzazione, ossia la modalità in cui la filosofia contemporanea (non solo) tedesca ha piegato la critica della metafisica alla propria (bassa) soglia di tolleranza, sia stato all’altezza del proprio radicalismo giovanile. Nel complesso, a prescindere dallo scandalismo professionale che rimpiazza la vera critica, la “recezione” novecentesca di Heidegger va assunta anzitutto come cartina di tornasole del destino annunciato di una certa filosofia da università, che non ha potuto far altro che diventare ciò che è sempre stata. Per il resto, la posizione qui espressa da Cacciari, che solleva l’interrogativo su una maggiore coerenza di Hegel rispetto a Heidegger in materia di tempo storico (cfr. p. 94), ci riporta alle conseguenze lungo il corso del Novecento filosofico di una perenne indecisione sincretistica alla Kojève, visto che il grande tema conclusivo del suo intervento riguarda la posta in gioco del significato di Geschichte e quindi le possibili variazioni della questione di una “fine della storia” proprio tra Hegel e Heidegger. In mezzo, la questione dell’oltre-uomo (cfr. pp. 97sgg.), che segna la divergenza rispetto all’interpretazione vattimiana di Nietzsche, che presenta tratti problematici anche per lo scrivente. L’affermazione per cui «l’Uebermensch di Nietzsche potrebbe apparire più prossimo alla “fine della storia” di Hegel» (97) potrebbe tuttavia essere ritorta contro i promotori di una perenne avanguardia nicciana, mentre ci ritroviamo dinanzi agli occhi la fenomenologia di un’ultimo uomo – o di un uomo ultimo –, figlio legittimo di una determinata razionalità occidentale che in luogo della libertà sta schiudendo il regno di una gioiosa idiozia tecnicamente assistita e vigorosamente sostenuta dalla democrazia di facciata del “mondo libero”.

[1] Massimo Cacciari, «Da Heidegger a Hegel», in Giuseppe Riconda / Claudio Ciancio (a cura di), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, Milano 2013, pp. 91-99.

 

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